Pubblicato su politicadomani Num 91 - Maggio 2009

Summit di Londra
Governance mondiale
e crisi finanziaria in salsa G20


Nonostante i buoni propositi e l'urgenza di nuove regole mondiali condivise, è stata la Cina con i suoi interessi a dominare all'ultimo vertice economico finanziario mondiale tenutosi a Londra il 1 e 2 aprile scorsi

di Alessia Centioni

Il G20 di Londra sin dall'inizio si è annunciato difficile. Le posizioni prospettate erano molto diverse, specchio di sistemi diversi, nella divisione del lavoro così come nella natura giuridica.
Obama si è trovato a fare i conti con partecipanti riottosi alle proposte made in Usa. Come made in Usa è la crisi da affrontare al G20, ha ricordato con (il solito) disimpegno il presidente Silvio Berlusconi.
Prima del vertice di Londra, il Presidente americano aveva annunciato, tra le contromisure alla crisi interna, la riforma drastica nel controllo finanziario per sottoporre hedge fund e derivati alle regole di vigilanza attualmente esercitate sugli istituti bancari. Giunto in Europa, Obama si è dovuto rendere conto che ciò non è bastato a convincere l'asse Berlino-Parigi che chiedeva maggiore vigilanza finanziaria e voleva di più: disciplinare il mercato globale con regole comuni.
Per isolare gli asset tossici la proposta è assolutamente chiara e rigorosa: ripulire e rilanciare il sistema. Che è questione molto più radicale di quanto non lo siano gli incentivi sostenuti da USA e Gran Bretagna.
L'opposizione europea alla ricetta obamiana nasce dalla convinzione franco-tedesca che le continue iniezioni di moneta non risolvano la situazione ma, al contrario, la aggravino, spingendo l'economia mondiale ancora più giù, nella spirale dell'aumento del debito e dell'inflazione. Sul tavolo delle trattative, inoltre, erano approdate altre due questioni: il welfare e la Cina. Mentre la Cancelliera e il Presidente francese tenevano ben in mente il ruolo del welfare state nelle loro economie nazionali (e di tutto il vecchio continente), Hu Jintao aveva presente il potere della sua Cina sulle casse statunitensi.
Detentore di una larga fetta del debito pubblico americano, la Cina è anche il paese che dopo gli Stati Uniti ha immesso, con 500 miliardi di dollari, la quota più elevata per tamponare la deriva finanziaria. Se al vertice i cinesi stringevano la mano agli americani e li rassicuravano sull'accordo per nuovi incentivi, con l'altra tiravano una proposta bomba: abbandonare il dollaro come valuta globale di scambio. Allo stesso tempo, strizzando l'occhiolino anche alla Germania, convenivano sulla necessità di un'authority mondiale. La capacità strategica di Pechino è riuscita a destare interesse e consensi anche nel cuore dell'Europa dove la Germania, come la Cina, fonda sull'esportazione gli attivi commerciali, contrariamente a quanto avviene negli Stati Uniti e nel Regno Unito che si sostengono a vicenda, consci del loro deficit di risparmio pubblico e privato.
La conclusione del summit ha raggiunto l'accordo sul rifinanziamento del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) per mille miliardi di dollari. Il provvedimento è fondamentale, perché interviene in aiuto dei paesi in bancarotta, e inoltre prevede che 250 miliardi del fondo siano destinati per il cosiddetto Special drawing rights (diritti speciali di prelievo, una sorta di valuta virtuale del Fmi che può essere scambiata con dollari, euro, yen e altre monete pesanti). "Previsti anche 5.000 miliardi di dollari che saranno stanziati nell'economia mondiale entro la fine del 2010", ha annunciato Brown.
Un altro accordo raggiunto è quello sui paradisi fiscali e bancari: dal vertice esce l'impegno preciso a mettervi fine sulla base di una lista Ocse. L'organizzazione porta due elenchi: nella black list compaiono Costa Rica, Malaysia, Filippine, Uruguay. Nella lista grigia invece 38 paesi tra cui Lussemburgo, Svizzera, Austria, Belgio, Singapore, Cile e Isole Cayman, Liechtenstein, Antille olandesi e Principato di Monaco, che, pur essendosi impegnati a rispettare le regole dell'Ocse le violano. Sanzioni saranno applicate a quei paesi che non forniranno le informazioni richieste dalle autorità di controllo ed i vincoli amministrativi saranno più severi, impedendo di depositare fondi in questi paesi. I G20 annunciano la fine del sistema bancario ma la Cina ha chiesto che Hong Kong e Macao ne siano escluse, in questo modo il rischio di spostamenti di capitali verso oriente è più di un rischio, è una certezza.
Parole dure anche sui bonus e gli stipendi dei dirigenti. "Non ci saranno più bonus per chi provoca fallimenti", ha detto Brown, e le retribuzioni dovranno riflettere la performance. Inoltre, i nuovi vertici delle istituzioni finanziarie dovranno venire assunti sulla base del merito.
È soddisfatto Gordon Brown, presentando al termine dei lavori del G20 il documento finale. L'accordo è stato raggiunto a fatica dai leader riuniti a Londra: il testo è stato sezionato e cambiato più volte, allo scopo di trovare una mediazione fra le spinte contrapposte di Stati Uniti (con l'appoggio inglese), e Francia e Germania (con sostegno italiano).
Le misure assunte a Londra appaiono senza dubbio marginali, non sufficienti a ripristinare un ingranaggio bloccato e lasciano deluse le aspettative di risanamento. Alla fine del summit è inevitabile domandarsi quale sia la portata effettiva di questi vertici, non propriamente istituzionali, legittimati direttamente non si sa ancora da chi, che mal riescono ad assumere di concerto strategie comuni. L'Europa continua a non ricoprire un ruolo autorevole, giacché si sentono due voci per due paesi invece che una per ventisette. La fine del summit lascia il posto a molti interrogativi, come quello sull'opportunità di rivedere e modificare la governance mondiale.
Il G20 non avrà dato risposte risolutive alla recessione ma è certo che quel tavolo ha confermato il cambiamento dell'assetto politico mondiale, con la Cina al centro.
La volontà di Francia e Germania di stabilire regole di vigilanza nell'economia mondiale è sembrata dar voce in forma istituzionale e moderata alla richiesta fatta in maniera critica dai contestatori che hanno invaso il cuore della city. Dall'altra parte, il piano Geithner-Obama appare oscuro se si riflette a fondo sulle origini e le conseguenze delle immissioni di liquidità. Esse infatti garantiscono operatori privati, ad esempio nell'acquisto di titoli tossici, proteggendoli con solidi fondi da eventuali rischi. Ma questi "solidi fondi" a chi appartengono? Alle casse pubbliche, ai contribuenti. Ovvio.
Inoltre, se si può comprendere il principio liberista di sostenere gli operatori privati che assumono il rischio dell'investimento, chi assicura però che con solo qualche correzione e senza un cambiamento di rotta radicale il sistema riparta senza incepparsi ancora? Continuare a rattoppare la superficie non colmerà le voragini di un sistema precipitato per squilibri reali.
La pessima distribuzione del reddito, il continuo incitamento al consumo irrazionale, l'esaurimento del risparmio privato e il ricorso all'indebitamento pubblico ci hanno portano a Londra, ma, in fondo, solo per trattare con una Cina potente che usa il capitale e l'autorità per dettare le condizioni o quantomeno avere l'ultima parola.
Per quanto appaia remota l'ipotesi di una tanto invocata nuova Bretton Woods, l'idea di world regulation è senza dubbio l'alternativa più efficace e responsabile rispetto a palliativi costosi e di strette vedute inadatti ad uno sviluppo di lungo periodo. Il prestito va reso, sempre. Se ora creditore è la Cina, un domani più vicino di quanto non si immagini, sarà l'ambiente a presentare il conto. Allora (nel nostro bel paese) quanto pagheremo per la nouvelle vogue di cemento e di nucleare?

 

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Num 91 Maggio 2009 | politicadomani.it